I tre pilastri del chiedere scusa

Considero meno meritevoli le scuse che non rispettano questi requisiti
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I tre pilastri del chiedere scusa

Ho preso l’abitudine di pormi una serie di domande ogni volta che mi ritrovo a valutare se scusarmi. A seconda delle risposte del momento, valuto se utilizzare la preziosissima parola “scusa” o se ripiegare su formule alternative più tenui.

Certo, non è la maniera più spontanea di viversi la vita, ma avrà pure qualche merito. Ecco una straziante riesamina a riguardo.

I tre requisiti per chiedere scusa genuinamente sono:
- L’effettivo dispiacere per il fatto avvenuto
- L’assunzione di responsabilità in prima persona
- La volontà attiva di rimediare

Il primo punto è facile. Se non sono dispiaciuto su quanto è avvenuto non è il caso di scusarsi. O meglio, può esserlo, ma non senza un pizzico di ipocrisia.

Piccoli dispiaceri e grandi dispiaceri sono entrambi sufficienti, mentre nessun dispiacere no.

Il secondo punto, sull'assunzione della responsabilità, introduce una serie di sfumature. Quando avvengono fatti che mi dispiacciono, ma dei quali non mi assumo la responsabilità, la mia dicitura di scelta è “mi dispiace”. Per l’orecchio di qualcuno potrebbe suonare come la stessa cosa, ma a me piace pensare che abbia tutto un altro significato rispetto a “scusa”.

In quest’ottica diventa sconsigliabile scusarsi per quei fatti che non sono ancora avvenuti. Ad esempio, “Scusa se ti interrompo” è farraginoso, perché ogni dispiacere per il futuro può essere evitato direttamente non interrompendo; se invece lo sgarbo interrompere ci appare compensato dall’importanza di quanto stiamo per dire… allora sarà meglio esordire con un più genuino “Mi spiace interromperti, ma…”.

“Scusa” fino a questo punto significa “Non solo mi dispiace per quanto avvenuto, ma devo proprio riconoscere che è colpa mia. Mi spiace che sia colpa mia!”.

Terzo è ultimo punto è il meno scontato. Possiamo anche condividere un dispiacere su un fatto avvenuto ed assumercene la responsabilità, ma se non vogliamo rimediarvi sarà ipocrita anche in questo caso scusarsi.
Nei casi migliori potremmo avere la possibilità di riparare completamente alla nostra colpa. In altri potremmo riuscire solo stemperare un po’. In altri  ancora non c'è più nulla che possiamo fare e, allora, basterà  limitarci a promettere (e riprometterci) di non cascare più nello stesso errore.
Infine, in alcune più rare situazioni, magari uniche e irripetibili, non avremo nemmeno mai l’opportunità di scegliere se commettere o meno l’errore — in quei casi, il terzo pilastro resta astratto ed ipotetico (“Se potessi tornare indietro, farei così e non colà”).

Detto tutto questo, “scusa” può essere parafrasato, in termini più prolissi: “Mi dispiace per quanto avvenuto e mi tocca proprio riconoscere che è colpa mia. Però ecco, non lascerò che il danno resti tale e farò del mio meglio per risolverlo o limitarlo”.

Mi viene in mente un passaggio di Umberto Eco, che parlava di quelle espressioni verbali che impattano sulla realtà e non si limitano a descriverla/simboleggiarla. Gli standard editoriali di questo magazine online non mi permettono di ricercare questo passaggio, ma, a memoria, il succo era questo: alcune espressioni come “Ti eleggo”, “Ti accuso” o “Ti scelgo” non descrivono solo la realtà, ma la cambiano nel momento stesso in cui vengono pronunciate. Questa cosa mi è sempre sembrata magica, incredibile e potente.

“Scusa” ha una grande affinità con questa famiglia di espressioni. E “ti perdono” ancora di più.

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